INTERVIEW WITH JORIT AGOCH : "Esprimo le mie emozioni da writer attraverso le bombolette"

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La cultura hip hop contiene in se’ quattro elementi inscindibili: MCing, breaking, Writing e DJing. Oltre al rap in Campania c’è un’altra disciplina nella quale spiccano massimi talenti: il Writing. Il writer che abbiamo intervistato per voi e’ Jorit Agoch, classe ’90 e membro della KTM, storica crew napoletana composta da Polo, ShaOne, Cyop, Kaf e tanti altri nomi. Jorit, nato a Napoli nel 1990, da padre napoletano e mamma olandese, nonostante la giovane età è già molto conosciuto avendo esposto e “imbrattato” i muri di buona parte del mondo: dall’Africa a Cuba, da Londra a New York senza mai dimenticare le sue origini partenopee. Infatti Napoli è grande fonte di ispirazione per l’artista:  muri, gli edifici e i treni della città sono stati riempiti di sue scritte, graffiti e soprattutto di ritratti di volti.  “Il Writing ha il merito di creare un’identità comune nei giovani che cominciano a vivere la città come uno spazio in cui dare sfogo alla propria voglia di espressione artistica”, ci spiega Agoch. Gli chiediamo di più.

Jorit quando hai dipinto per la prima volta su un muro?

Avevo circa dodici anni e scrissi insieme agli altri amici del mio viale il nome della nostra banda su un muro. Era un nome di fantasia che non ricordo neanche, ma dopo quella prima volta non ho mai più smesso di dipingere nemmeno per un giorno.

Quando hai fatto invece la conoscenza della cultura hip hop?

Sempre in quello stesso periodo ho scoperto che dietro al mondo delle firme c’era un movimento enorme: una cultura chiamata Hip-hop, persone chiamate writers che svolgevano queste attività già da una vita e che oltre a fare scritte sui muri dipingevano disegni elaboratissimi. Da quel momento in poi mi sono innamorato in maniera folle di quei valori. È stato il classico colpo di fulmine grazie al quale ho iniziato ad essere un vero writer e a fare della street-art la mia ragione di vita.

Quindi hai imparato da autodidatta. Come realizzi le tue opere?

Praticamente si. Già 12, 13 anni fa un amico mi illuminò raccontandomi le storie dei graffiti americani e spiegandomi lo stile dello street art quando ancora il fenomeno non era molto diffuso da queste parti. Poi ho deciso di laurearmi all’Accademia di Belle Arti dove ho appreso come utilizzare l’olio su tela e l’acrilico. Si può dire però che abbia imparato essenzialmente da solo grazie all’allenamento costante. Ricordo che le prime volte entravo in qualche negozio, rubavo le bombolette e mi dirigevo subito nelle periferie partenopee a “inguacchiare” i muri. Le mie opere per strada sono realizzate al novanta per cento con bombolette. Poi posso bucarle, spruzzare i colori nei tappi e stenderli aiutandomi col pennello, ma in primo luogo utilizzo spray.

Principalmente hai dipinto le tue opere nelle periferie napoletane, ma hai esposto e pittato in buona parte del mondo. Raccontaci le esperienze estere che ti hanno maggiormente segnato.

Ho girato molto sia per mostrare le mie opere, che per realizzarle. Amo viaggiare e penso che si possa essere una persona più ricca esclusivamente conoscendo e stando a contatto con le varie culture del mondo. Non a caso appena raccimolo qualche risparmio faccio biglietti e parto ovunque. Vuoi sapere i viaggi che più mi hanno segnato? Sicuramente le otto volte che sono stata in Africa per beneficenza. Ho realizzato delle mostre per raccogliere fondi al fine di creare degli ospedali sul posto. Poi le mie esposizioni a Londra, Berlino e Sidney senza dimenticare la magica Cuba.

Dove ti piacerebbe che fossero esposte le tue opere?

Il mio sogno sarebbe tenere una mia mostra a New York perché è una città che amo, nonché la vera patria dell’hip-hop. Ci sono stato tre mesi all’inizio dell’anno assieme a Polo de “La Famiglia” (ormai stabilitosi nella Grande Mela da tempo) e ne sono rimasto incantato.

Dai tempi della Famiglia e della prima generazione dell’hip hop campano sicuramente la musica rap è molto cambiata qui a Napoli. Cosa pensi della scena odierna e quanto te ne senti parte?

Mi sento parte della scena attuale. Non mi appartengono e non mi interessano però le polemiche sul vero o sul falso hip-hop. L’importante è che Napoli abbia sfornato dei nomi importanti del genere che continuano ad essere riconosciuti. Personalmente stimo da morire Speaker Cenzou, ShaOne, Polo, ma anche lo stesso Clementino (accusato da molti di essere diventato troppo commerciale). Sono il primo che si sente e vuole fare il writer, ma a volte devo adattarmi a dipingere le serrande o a fare arredamenti d’interni per andare avanti. Capisci che intendo dire? L’importante è che ogni lavoro sia guidato sempre dalla passione.

Sicuramente una grande passione unita al tuo talento ti hanno portato a far parte a soli 24 anni della KTM. Cosa significa per te appartenere a questa crew hip-hop? E che progetti hai per il futuro?

La KTM è diventata senza dubbio dal 1992 ad oggi la crew hip-hop più storica e rinomata di Napoli. Per me è un onore farne parte già da tre anni ed avere il rispetto di persone come Polo e ShaOne, miei esempi di vita fin da quando ero solo un ragazzetto. Fare parte della KTM costituisce ovviamente il raggiungimento di un mio obiettivo, ma oggi quello a cui aspiro è di costruirmi un mio spazio e un mio nome nel mondo della street-art a livello internazionale. Voglio continuare come da quattro anni a questa parte a concentrarmi soprattutto sui volti umani da cui sono attratto in maniera fortissima. Mi piace dipingerli, mi piace la sensazione che provoca nelle altre persone quando li osservano e mi piace quello che simboleggia perché il viso è ciò che meglio identifica una persona. Per il futuro vorrei che essere writer mi rendesse come un vero e proprio lavoro perché sporcarmi le mani, immaginare e emozionarmi attraverso i colori e’ l’unica cosa che amo fare dalla mattina alla notte…

Eugenia Conti

 

INTERVIEW WITH MARIOTTO MC / "Dall'epoca delle Posse militante in note per il mio quartiere Bagnoli"

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In questi giorni è in ruolo un po’ insolito, quello di attore – interpreta un pusher – nel nuovo film di Antonio Capuano, Bagnoli Jungle, le cui riprese finiranno il 30 maggio (nell’immagine una foto del set, con Mariotto e sullo sfondo Capuano). Ma Mariotto Mc è soprattutto musica militante: canta dai primi anni ’90, da ben ventidue anni, e ha vissuto a pieno la scena Posse di allora.

Nominato “erede spirituale” dai 99 Posse, Mariotto racconta nei suoi versi le problematiche e i disagi della classe operaia, tenendo sempre a cuore le sorti della sua Bagnoli e militando concretamente con i ragazzi della zona per combattere le problematiche da cui è afflitta. Tra l’altro, l’mc ha il merito di essere tra i primi a Napoli ad aver portare la situazione della dancehall e ad avvicinarsi a certe sonorità jamaicane e a ritmi reggaeggianti, in un periodo in cui il rock ed il metal dominavano come generi musicali indiscussi. A favore di una mescolanza di generi, come espressione della versatilità che ha sempre contraddistinto la musica napoletana, si riconosce nell’hip hop, ma non nel fenomeno di tendenza che è diventato oggi. “La musica è avere qualcosa di importante da dire, ma solo chi è cresciuto sui marciapiedi può averne”, ci spiega sfoderando subito il suo animo militante-antagonistico.

I 99 Posse ti hanno nominato erede ideale della loro musica. Qual è il tuo rapporto con loro?

Siamo amici da ventidue anni e abbiamo sempre percorso la stessa strada sia ideologica, che musicale. Ciò che più ammiro in loro oltre all’innegabile talento è la costanza che hanno mantenuto in tutti questi anni di carriera. Al di là dell’affetto personale ritengo che il motivo per il quale mi abbiano nominato un erede sia il mio modo di far musica militante-antagonistica, specie col gruppo che avevo nei primi anni ’90, Codice 22. La maggior parte dei miei testi erano rivolti alla classe operaia, soprattutto agli operai di Bagnoli, zona da cui provengo, e che vivevano e vivono la problematica dell’amianto. Essere un’artista, secondo me, significa anche essere un militante. Non a caso vivo a Villa Medusa a Bagnoli, posto occupato, che è diventato la casa del popolo.

Dopo un ventennio che fai musica militante-antagonista a Napoli noti un cambiamento in positivo o in negativo in entrambi i sensi?

Secondo me, oggi a Napoli si sono persi molti valori, tra cui la cultura musicale. Le band scarseggiano sempre più e sembra che tutto debba essere fatto in digitale. C’è il fermento dell’hip hop, ma questo genere non ha ancora scritto niente nelle pagine della storia della città. Ci sono sicuramente dei talenti in quest’ambito, la mia top five è composta da: Dope One, Peste Mc, Capone Mc, Capeccapa e Pepp Oh, però mi sarebbe piaciuto che ci fosse anche oggi un sound più versatile come è sempre accaduto dagli anni ’70, agli anni ‘90. Ai nostri tempi operavamo una commistione di generi e suonavamo accompagnandoci con gli strumenti, vedi gruppi come i 99 Posse o gli Almamegretta. Infine c’era un’amicizia più stretta e più disinteressata tra di noi. Sapevamo il vero significato della parola crew insomma.

Quale è la tua attuale crew e che percorso hai fatto prima?

La Flegrea Black Music, crew composta da una quindicina di elementi. Ci sono alcuni nomi noti come Marcello Colemann (Almamegretta), Valerio Jovine ed altri più conosciuti nella scena rap come Genesi e Matto Mc. Come si evince dal nome, questa crew abbraccia tanti generi che confluiscono più o meno nel black, dall’hip hop al reggae, dal raggamuffin alla dancehall, all’r’n’b. All’epoca delle Posse, noi eravamo tutti un’unica scena Posse, ma ognuno aveva un suo genere di riferimento. Ad esempio, gli Almamegretta facevano Dub; i 99 Posse facevano Old Posse con influenze più jamaicane; i 24 grana facevano dub ma con influenze etniche e sonorità tipiche napoletane; La Famiglia, Speaker Cenzou e i 13 Bastardi facevano hip-hop ed hanno portato questa cultura a Napoli per la prima volta, così come i Sud Sound System hanno avuto il merito di creare un proprio filone musicale raggamuffin in Salento. Il mio gruppo invece era più crossover e suonava una sorta di rock mescolato all’hip-hop. Sono ventidue anni che canto ed ho sempre cercato di raccontare nei miei testi il disagio sociale e la solidarietà verso i deboli. Sono cresciuto in una famiglia proletaria, ho perso mio nonno per una malattia a causa dell’amianto, ho vissuto tutto sulla mia pelle e non potevo non esprimerlo sotto forma di musica.

Hai scritto anche un brano sulla terra dei fuochi insieme alla Flegrea Black Music, che si intitola appunto “Terra dei Fuochi”…

Si. Abbiamo avuto anche delle critiche, ci hanno accusato di aver strumentalizzato un problema per dare una maggiore visibilità e notorietà alla crew. Ma posso garantire che gente come noi ha vissuto la situazione della Terra dei fuochi sulla propria pelle ed in prima linea (si pensi che molti ragazzi della crew sono di Pianura). Le accuse rivolteci sono assolutamente infondate: non sfrutterei mai questioni così delicate per ragioni diverse da quella della necessità, come ho sempre fatto, di raccontare il disagio. E chi mi conosce lo sa. Il pezzo comunque nasce da persone che affrontano problematiche quotidiane nel proprio quartiere di appartenenza e ci è venuto istintivo parlarne. Dai rifiuti tossici disseminati nella Terra dei Fuochi, all’amianto a Bagnoli, alla discarica a Quarto ed a Chiaiano e così via…

Raccontaci del quartiere da cui provieni, Bagnoli.

Bagnoli a differenza di altre periferie di Napoli, come quella Nord o Est, ha una sua cultura e mentalità ben precisa. Il ragazzo di Bagnoli è abituato fin da adolescente a praticare i posti occupati, a militare, a non rimanere muto di fronte alle ingiustizie. E poi qui c’è molto fermento musicale. La scena artistica di Bagnoli è florida ed è sbagliato ridurla alla persona di Bennato. E’ risaputo che c’è il problema dell’amianto e stiamo lottando con tutte le nostre forze perché si bonifichi. Abbiamo instaurato anche un comitato ad hoc per modificare lo stato di cose e per riscattare i 510 morti per amianto che si contano sul territorio. Perciò, riteniamo la ricostruzione di ”Città della Scienza” un problema del tutto secondario. Oltre a queste azioni militanti, abbiamo poi la Casa del Popolo o Villa Medusa Occupata, al cui interno svogliamo un sacco di attività per anziani, adulti, bambini ed in cui non può mancare anche un nostro piccolo studio di registrazione. Detto questo, ritengo che in futuro ci sarà sempre più azione militante antagonistica tra i giovani di Bagnoli.

Quali sono i tuoi progetti futuri?

Sto lavorando al mio secondo disco da solista. Avrò diversi featuring tra cui Francesco Di Bella, ex voce dei 24 Grana, Ciccio Merolla e Marco Zurzolo, fratello del noto bassista di Pino Daniele, Rino, oltre che vari componenti della Fbm come Jovine, Geco e Matto Mc. Con questo disco voglio fare un salto indietro di venti anni, commemorare la scena Posse. Il titolo ancora non è definitivo, ma molto probabilmente sarà “Nisida”, posto che ho avuto modo di vivere a lungo e presente nelle tematiche del disco.

Eugenia Conti

INTERVIEW WITH NTO / "Vi presento il mio nuovo cd Numero 9 insieme alla Stirpe Nova"

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Abbiamo incontrato Ntò, l’ex voce dei Cosang, durante l’instore del suo ultimo disco “Numero 9″ alla Feltrinelli di Piazza Garibaldi a Napoli. A firmare le copie insieme a Ntó tutta la Stirpe Nova: nuova area di riferimento dell’mc nata per evidenziare i nuovi talenti della città, primi tra tutti il rapper Palù e i beatmaker Ntà La Lince e Dj Klohn ad affiancarlo. Per l’occasione la Feltrinelli pullula di ragazzi a dimostrare quanto l’hip hop campano sia una cultura ormai sempre più radicata, ma non mancano le persone più adulte amanti del genere. Così come partecipano i colleghi di musica tra cui Lucariello, ex Almamegretta, presente nel brano “Nuje vulimme ‘na speranza”. All’epoca dei CoSang sappiamo tutti che è stato fautore di una rivoluzione musicale, ha dato vita alla True School napoletana dove per la prima volta sono state raccontate verità sui quartieri disagiati attraverso il genere gangsta-rap. Oggi c’è il suo secondo esordio da solista. L’abbiamo intervistato per voi.

Come nasce la Stirpe Nova e questo nuovo progetto discografico?

Questo disco rappresenta l’evoluzione personale, a seguito del mio disco solista “Il coraggio impossibile”, uscito l’anno scorso, così come l’evoluzione di un’etichetta e di una crew. Dopo tanti anni di carriera, Stirpe Nova nasce per offrire l’occasione di esprimersi ai ragazzi meritevoli della mia città e per dare vita a un simbolo sotto il quale poter anche raccogliere le mie produzioni un domani che smetterò di rappare. Stirpe Nova parte come una sorta di etichetta indipendente per poi diventare un vero e proprio collettivo. Infatti nell’ultima traccia del cd “Campo pe non murì” insieme a Valerio Jovine e Palù ho cercato di inserire per collaborarvi tutti i nuovi talenti giovanissimi del territorio: Austin Prior, Peppe il Pollo, Simone Marsicano, Revo e 4/20.

Perché Numero 9 e cosa racconta al suo interno?

Numero 9 perché richiama una mia rima contenuta nel brano “Fuje tanno” dei CoSang in cui dicevo: “Scarpe nuove, barbe lunghe”. In questo lavoro ho invertito la rima in: “Barbe lunghe, scarpe nuove, numero 9″, che corrisponde al 43, numero di calzature sia mio che di Palù. Si può dire che Palù è il primo prodotto della Stirpe Nova, questa mia etichetta che ho lanciato. “Numero 9″ è interamente in napoletano perché sono voluto tornare un po’ alle origini e ho deciso di unire al suo interno i lavori e le collaborazioni di tanti artisti made in Campania. L’unica voce non napoletana presente nel cd è quella del rapper Guè Pequeno di Milano. In “Numero 9″ ho ritrovato Lucariello, un mio caro amico col quale abbiamo iniziato. A differenza de “Il coraggio impossibile” nel quale ero più introspettivo, in questo disco si alternano tematiche più easy, a quelle sociali stile CoSang. Torniamo di nuovo ad analizzare la società perché per un napoletano è impossibile non farlo, ma in maniera stavolta più leggera. E’ un disco che sento mio, ma allo stesso tempo anche degli altri che mi hanno affiancato e per molti dei quali costituisce il primo esordio discografico, come nel caso di Palù o di altri ragazzi sedicenni o diciassettenni tipo Peppe il Pollo. Però, c’è anche Speaker Cenzou dei Sangue Mostro nella traccia “Chi Trase, chi jesce”, feat. El Koyote. Quindi, se vogliamo sono racchiuse tre generazioni di rap che si fondono in una bella commistione.

Quanto è cambiato ‘Ntò dai tempi dei CoSang? Ci potrà essere in futuro un ritorno del gruppo?

Sono cambiato perchè mi sono evoluto. Quando siamo usciti con i CoSang le nostre liriche avevano una direzione precisa: raccontare le storie del nostro quartiere. Oggi avendo fatto tante esperienze sono cresciuto, da ragazzo sono diventato uomo e sento che attraverso la mia arte posso affrontare svariate tematiche differenti, non solo temi violenti. Ad esempio nel precedente lavoro da solista mi sono messo alla prova rappando anche in italiano, non smettendo mai di scrivere nel mio dialetto però, per poi tornare oggi esclusivamente al napoletano che è inscindibile da me. Tornando ai CoSang non ho assolutamente nulla contro Luchè tanto è che ho pubblicato anche il suo ultimo pezzo sulla mia official page per mettere a tacere il pubblico meno sano e più malizioso. La vita ci ha portato a dividerci e a prendere strade diverse dato che Luca si è trasferito in Inghilterra. Non ci deve essere speculazione su questa divisione. Spero in un ritorno dei CoSang, ma non deve essere una trovata commerciale. Ci dovremmo rincontrare, ritrovarci artisticamente e vivere di nuovo qualcosa insieme di forte per poter lasciare al pubblico ancora una volta qualcosa di unico.

A differenza di tanti tuoi colleghi non hai mai lasciato Marianella, la tua periferia. Come mai questa scelta?

Confesso che quattro anni fa avevo in mente una certa mobilità, ma avendo perso mio padre in quel periodo ho deciso di rimanere qui. Non sono troppo legato al fato, ma credo nell’elemento casuale variabile e ci sono state delle cause che mi hanno ulteriormente tenuto attaccato alla mia città. Sicuramente ho viaggiato molto e ho trovato ispirazione anche fuori, ma vivere lontano da Napoli non mi è mai piaciuto. Marianella è la mia casa e Napoli altrettanto. Qui c’è la mia vera famiglia, ci sono i luoghi nei quali sono cresciuto e non riuscirei mai a stabilirmi del tutto in un altro posto perchè la mia periferia è inscindibile da me e dalla mia arte. Per avere una vita e una famiglia sceglierei sempre Napoli. Ho profonda stima di quello che i napoletani portano dentro, nonostante i media facciano di tutto per far apparire solo il peggio di questo bellissimo popolo. Sono triste. Lo Stato non fa che mettere i cittadini contro altri cittadini, in questo caso i napoletani e si nasconde dietro gli stadi.

Come mai allora hai deciso di cantare la sigla finale di “Gomorra la serie” criticata da tanti proprio perchè appare un’ennesima manifestazione di sputtanamento nei confronti di un quartiere?

Anni fa con i CoSang scrivemmo un pezzo “Mumento d’onestà”. Il mio pensiero da allora non cambia. Per me l’onesta deve essere quella verso il racconto di determinate vicende e luoghi. Se abbiamo dato il nostro contributo a questa serie è stato perchè Sollima è un regista che fa un lavoro dal vero e si è sempre esposto. “Romanzo criminale” ad esempio è stato l’unico format in Italia ad essere comprato dagli americani per essere rifatto negli Stati Uniti, evento che non accadeva da 50 anni. Noi abbiamo vissuto veramente quelle realta, purtroppo ho visto morire tante persone che conoscevo e nei brani c’è ancora la verità e tutta la nostra denuncia. E ascoltassero il testo di “Nuje vulimm’na speranza” prima di criticare.

Eugenia Conti

INTERVIEW WITH TUEFF / "Io autore di Fratelli d'Itaglia mi sento rapper e brigante"

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Non solo la strada. Non solo racconti di periferia e disagio. Ma anche verità e storia. Federico Flugi aka Tueff è un rapper brigante. Nella scena hip-hop napoletana ha da poco esordito come solista con il brano “Fratelli d’Itaglia” dove Itaglia sta a indicare quella colonizzazione del Sud per mano del Nord che da sempre denunciamo, anche attraverso queste pagine. Tueff fa rivivere gli eroi del popolo, i briganti. Il singolo vanta la collaborazione di uno dei massimi rappresentanti della musica hip hop italiana, ovvero l’ex Articolo 31, Dj Jad, che lo ha prodotto. Nel videoclip invece appaiono Pino Aprile e la squadra di rugby napoletana Briganti. “Fratelli d’Itaglia” è il primo estratto da “My Raplosphy”, l’album di esordio di Tueff, che uscirà quest’anno. “Ho scritto questo pezzo per il grande legame che mi unisce alla mia terra e per rivendicare una verità storica che viene nascosta da 153 anni – ci spiega infatti Tueff – E’ assurdo che oggi ai ragazzi si propinino bugie sul Risorgimento italiano  come è paradossale che  qui al Sud le stade e le piazze siano dedicate a Mazzini, Garibaldi e Cavour. Ed è inaccettabile che a Torino esista ancora il Museo di Lombroso con i resti dei briganti. Tutto questo mi ha spinto a comporre “Fratelli d’Itaglia” dove, come ribadisco nel testo, “metto da parte il mio dialetto per arrivare a chi si crede perfetto”. Abbandono il napoletano, che comunque mantengo nel ritornello, perché tutti possano recepire il messaggio.

Per te il riscatto del Sud passa necessariamente dalla conoscenza del passato?

La conoscenza reale della nostra storia è fondamentale in questo senso. Non dimentichiamo che il Nord, dopo averci massacrato,  dopo il 1861 ha chiuso le scuole per 15 anni proprio perché certi abomini fossero dimenticati. Sotto il Regno delle Due Sicilie invece le scuole erano gratuite e tutti avevano la possibilità di acculturarsi. Questo anche per smentire il luogo comune che voleva la classe contadina ignorante, quando invece molti agricoltori sapevano leggere, scrivere e fare i conti. E del resto quelli che sui libri di scuola vengono comunemente chiamati briganti, etichettati come fuorilegge, altro non erano che quei contadini, patrioti che difendevano la propria terra dagli invasori con tutti i mezzi a disposizione.

Cosa potrebbe risollevare le sorti del Sud secondo te?

Ci sono due elementi: la cultura e l’unione. Un popolo ignorante e non unito è più facilmente manovrabile. Per me la rivoluzione inizia dalla cultura, dalla storia. Scrivere dei libri come delle canzoni sono atti che possono contribuire a riappropriarsi della propria identità. Il rap poi è il genere più adatto perché tende a dare un messaggio diretto, a raccontare verità. Infatti, sono abituato a comporre versi in cui racconto quello che vivo o quello che osservo nelle persone vicine a me.
 La verità storica sarà argomento anche del tuo nuovo disco?

Il fulcro del disco, tutto in napoletano, dal titolo “My Raplosophy” sarà l’identità a 360 gradi, con incursioni nella storia musicale della mia città. Senza Napoli Centrale, Pino Daniele, il maestro Avitabile, Enzo Gragnaniello, gli Showman e tanti altri oggi non potremmo parlare di hip-hop. La prima traccia del disco sarà appunto “Fratelli d’Itaglia” feat. Dj Jad, l’unica in italiano. Ma ci saranno collaborazioni e produzioni con ShaOne (la Famiglia) sul beat di Sonakine e con gli scratch di Frankie B, ‘O Pecone dei Capeccapa (sia come voce di un ritornello, che come producer), Dope One, Jovine.

Perché “My Raplosophy”?

My Raplosophy perché penso che il rap sia una cosa personale. Non posso avere la presunzione di spiegare agli ascoltatori quale sia la filosofia generale del rap perché significherebbe mettermi su un piedistallo ma voglio far comprendere a tutti cosa rappresenta per me l’hip hop: una cultura che parte da colossi del genere come Dj Kool Herc e Afrika Bambaataa, ma anche una filosofia di vita. Non a caso, è la traccia con ShaOne, per me uno dei più importanti esponenti del rap campano, che darà il nome al disco.

Eugenia Conti

INTERVIEW WITH DOPE ONE / "Vi racconto le mie esperienze di periferia in attesa del mio primo disco da solista"

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Figlio della strada ama definirsi il rapper napoletano Ivan Rovati De Vita, al secolo Dope One MC. Classe ’83 e nativo di San Giorgio a Cremano, Dope One rappa da quando aveva solo 12 anni ascoltando soprattutto i dischi del grande Krs One e rispettandone i messaggi. Trasferitosi in più contesti popolari, da San Giovanni a Teduccio a Forcella, da Casalnuovo ad Acerra, ha vissuto le strade di periferia e ha fatto di queste un valore aggiunto alla sua arte. Non a caso il primo palco che calca nella sua vita è uno storico di periferia: quello di Officina, nel periodo in cui i 99 Posse e gli “Skillz Delector” danno ai giovani la possibilità di esprimersi per la prima volta attraverso il freestyle. Tra tutti, però, il giovane Ivan spicca particolarmente, tanto è che da quel momento molti artisti fanno a gara per collaborare con lui o per averlo nelle proprie crew, da Jovine a Clementino, da Speaker Cenzou, suo mentore, agli stessi 99 Posse (che lo hanno “adottato” facendosi accompagnare da lui nell’ultimo tour).

Dopo molta formazione e la partecipazione a diverse crew, dai K.I.C. ai Free Style Concept (in compagnia di OXROC,BEREAKSTARR E AFRO) e dopo aver inciso diversi dischi in compagnia di altri colleghi, come Armageddon feat. Clementino e Oluwong, Dope One sta per tirar fuori il suo primo disco solista, atteso da tanti e che ci racconta in anteprima in quest’intervista.

Come nasce questo progetto e come si chiamerà?

Questo progetto nasce con un concept ben preciso: mescolare campioni di musica diversa, che spaziano dal soul, al rock, dal reggae, alla dancehall. Dopo aver realizzato i beat, ho cominciato ad invitare nel mio disco alcuni tra i migliori musicisti napoletani, come quelli di Jovine e dei 99 Posse. Il risultato è stato l’amalgama tra il rap classico e la musica suonata. Il senso di tutto è far capire che il rap è un genere versatile, melodioso anche se fatto a cappella o con un semplice assolo di chitarra o di sassofono di sottofondo. Riguardo al titolo ho un po’ di idee, ma voglio pensarci bene perché trovarne uno giusto è come farsi un tatuaggio. Sai che rimarrà un segno indelebile nella tua vita.

Le tematiche che hai scelto, invece?

Ci tengo a fare una piccola premessa in merito. Ho avuto delle proposte da parte di alcune major discografiche italiane ma volevano impormi delle tematiche e dei sound che non mi rispecchiavano assolutamente. Di conseguenza ho rifiutato le offerte e ho preferito autoprodurmi il disco. Non potevo parlare di come si comporta lo Stato con le persone, delle cose assurde che ascolto durante i telegiornali, di ciò che i miei stessi occhi vedono in mezzo alla strada in maniera soft, come vorrebbero le grandi etichette. Va bene rappare solo per far divertire il pubblico, rispetto le canzoni solari di altri colleghi, ma non è la mia concezione di rap. Per me scrivere versi è una questione seria, è una valvola di sfogo, è come l’allenamento costante di un pugile che prende a pugni il saccone. Detto questo il mio cd parlerà di diversi argomenti: dalla lotta alla criminalità organizzata del Sud (mafia, camorra, Sacra Corona Unita e ‘Ndrangheta) all’orgoglio di essere napoletano a delle vere e proprie celebrazioni alla vita. Per quanto riguarda il tema importante della politica ho sempre sostenuto che la mia sia quella hip hop. Ritengo che sia una delle migliori politiche esistenti e per rendercene conto è sufficiente ascoltare un qualsiasi discorso di Afrika Bambaataa, gruppo tra le mie principali fonti di ispirazione musicale.

Quali sono le tue principali fonti di ispirazione musicale partenopee?

La mia principale fonte di ispirazione napoletana è Speaker Cenzou, nonché il mio mentore. Ritengo il suo primo album “Bambino cattivo” dei primi anni ’90 ancora incredibilmente attuale. Attraverso Cenzou sono arrivato ad ascoltare i 99 Posse, che rappresentano la storia di Napoli. Sono cresciuto con i loro testi nelle orecchie. La voce e l’ideologia di Zulù hanno influenzato molti di noi in tutti questi anni. Infine, l’incontro con Jovine ed i suoi musicisti mi hanno portato ad essere ciò che sono oggi. Infatti, sia i 99 Posse che Jovine saranno ospiti nel mio prossimo disco. Confesso che tutt’oggi mi capita ancora di non capacitarmi di accompagnare i 99 Posse in tour. A volte non ci credo che condividiamo il palco insieme, se penso a quando ero solo un ragazzo come tanti e facevo freestyle per le prime volte nella mia vita ad Officina, nella periferia di Gianturco.

Nella tua vita hai abitato quasi sempre in case popolari. Quanto le esperienze di periferia hanno contaminato la tua musica?

Molto. Cito il grande maestro Enzo Avitabile che dice nel disco dei 99 Posse all’interno del brano “Napoli, Napoli, Napoli”: “E cas’popolari m’assumegliano, sono l’aria e ‘a distanza che m’ fa viaggiá”. Solo chi è cresciuto in certi ambienti può comprendere il vero valore di questa frase. Nelle case popolari c’è un clima di grande umanità e visceralitá che si manifesta dallo scambio di cibo allo scambio di confidenze via balcone. Vivere la periferia e i sobborghi di Napoli mi ha sempre aiutato nella vita e nel rap. Mi sono sempre sentito allo stesso livello delle persone comuni che non arrivano neanche a fine mese e la mia musica è dedicata soprattutto a loro, che chiamo in causa denunciando  ciò che subiscono. Di questi tempi, possiamo ritrovarci tutti in mezzo ad una strada. Perciò siamo molto vicini ai ragazzi di San Modestino (Benevento) che rimanendo senza niente hanno occupato le case popolari della zona. Abbiamo suonato per loro con Jovine ed è stata un’esperienza molto bella perché c’era una vera immedesimazione personale nella situazione. La periferia comunque continua ad essere una grande fonte d’ispirazione per me contro i luoghi comuni: il napoletano non può essere etichettato solo come camorrista, così come il genere rap non può limitarsi a parlare solo di donne e automobili sportive. Questa è un po’ la filosofia di tutti i ragazzi rapper figli della strada.

Hai scelto altri rapper figli della strada per collaborare nei tuoi quattro dischi? Quanto i tuoi precedenti lavori hanno influenzato il tuo disco solista?

I miei precedenti dischi sono stati “Equalizer” con Oluwong, “FreeStyle Concept” con i BreakStarr, “Underground Science” con TuEff e Sonakine e “Armaggedon” con Clementino e Oluwong. I rapper ed i beatmakers che hanno partecipato a questi lavori sono sicuramente dei grandi amici che come me hanno vissuto certi tipi di situazioni. Ad esempio Clementino viene dal rione Gescal di Cimitile, Sonakine da Villaricca, BreakStarr da Barra e così via. Siamo cresciuti negli ambienti più popolari ed anche questa cultura ha unito ancor più me e i miei colleghi. Oggi gente frustrata scrive sui social-network che nel rap è morto il concetto di fratellanza. Non sono affatto d’accordo, per me questo è un riflesso di chi passa troppo tempo davanti ad una macchina virtuale che fa attivare il cervello, ma non il cuore. Nei dischi in compagnia delle mie crew viene dimostrato l’esatto contrario: c’è tanto cuore e fratellanza. Con i miei fratelli ci siamo divisi tutto, anche un pezzettino di pane e per questo li porto sempre dentro me. Dopo quattro esperimenti del genere, oggi però sento proprio il bisogno di scendere il campo a 360 gradi e mettermi in gioco come solista. È arrivato il momento giusto!

Fai un piccolo freestyle per i lettori di Insorgenza…

“E pure se teng’ nu sottofondo assurd e na canzone ca nun ‘a sacc’// ‘O Stesso spaccio robb’ ro Sud//

Chesta è robba ca vene da Napule, comm’ a Enzo Avitabile// ‘O saje ‘o facc tutte e juorne, tutt’ e semmane, tutt’e mise//

E tutt o mese stong ‘ncopp a nu microphone// Comm ‘ncopp ‘o sassofon, ie stong ‘ncopp o microfon//

James Senese rind’a cervella, Napoli central, rime c’a pal// Insieme a Fratmo TuEff nun simm’ nu bleff//

Rapresentamm Napoli, Chist’ è ‘O Sud, Chist’ è ‘O Sud// Napoli va cercann ‘e miracole, ma nun è Lourdes//

Stamm’ ancora cca’ pure se sto facenne ‘o rap ncopp a ‘nu piezz ‘e Vasco Ross, ca nun c rappresent//

‘A gente pienz ca ‘o Sud ce stanno ‘e boss, ma nuje simm’ gent’ tranquill, se vuò facce ‘nu squill//

simm gente arzill ca cantamm’ come ‘e cardill// Stamm ‘ncopp ‘e marciapiede, pe’ chi conosce chesta fede// Napoli, Dope One è l’erede//

Rappresent’ come e 99 Poss// Legalize come Peter Tosh, quann m’o ffumo e me vene ‘a toss//

Chest’è Napule, ‘O Sud e arèt’ e vic nascost//

‘Nu saluto a tutt quant, pure a Sorema ca m’ sta affianc// Napule, nuje simm ‘nu branc, nun simm’ mai stanc…”

Eugenia Conti