RECORD REVIEW / “Sempre più vicini” di Casino Royale (1995)

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Sfumature d’Oriente, incisioni rock, orecchio Trip-Hop, bassissimi pesanti come coperchi dei bidoni di metallo alla “Stomp”, come i battiti del cuore, flauti, esperimenti, testi in inglese e in italiano … Un insieme di sensazioni ed esperimenti quelli racchiusi nello storico album “Sempre più vicini” dei Casino Royale pubblicato nel lontano 1995.

Inizia “Sempre più vicino”, sono sempre stata attratta dagli intro degli album che sono stati prodotti dagli anni 80 fino agli anni 2000, ti invitano a un viaggio misterioso ed è un giusto e gustoso richiamo ad ascoltare tutto l’ album, perchè si presenta bene e ti rapisce. In quei favolosi anni si manteneva una certa fiducia nel sound che si produceva, al tempo stesso si sperimentava, anche questo è il bello di essere artisti, avere fame di nuovo, tanta fame. I videoclip musicali sono una costruzione teatrale composta da materiali semplici, il montaggio è d’impatto, il tutto addolcito dalla voce di Giuliano Palma, unica e pulita, il prodotto che ne esce è indimenticabile, per chi sa apprezzare la composizione della semplicità : divani di stoffa, abitacoli piccoli di plexiglas riempiti di acqua, sporcarsi in viso con quello che sembra inchiostro o vernice. “Suona Ancora” culla come le onde del mare in mezzo a una montagna. Il testo trattiene, non fa sfuggire la fine della canzone, è un grido di aiuto per mantenere la musica nello stato presente, statico, né pescando dal passato, né proiettandosi troppo nel futuro, Giuliano ripete “Ancora, ancora” e fa venire voglia di sentirla per tutto il giorno perché appunto  “una storia non è finita finché si è vissuta”.

“Anno zero” fa rituffare nella sonorità dei “Sangue Misto” e in tutto ciò che Kaos, Dj Gruff e Ice One, usavano per tatuarti dentro le orecchie il pentagramma che creavano nelle loro belle teste. La lirica è un freestyle pieno di ottimismo e ambizioni, quella voglia di fare che ci si sente dentro che ti porta a non fermarsi mai. Il ritmo è sicuramente “Sugar Hill Gang”iano, le gambe partono in automatico, imitando i famosi steps di MC Hammer, insomma tutto ciò che si sente quando si è proiettati e felici verso il successo. Ecco poi i primi accenni di quello che poi diventerà il futuro della band, “Ogni singolo giorno” è un esperimento ska ben riuscito, calmo, ragionato, melodico che mi fa venire in mente il percorso di una strada, di un vicolo. Con curiosità e senso di scoperta si racconta il presente di una generazione in balia di sé stessa, consapevole dei tempi che cambiano.

“Cose difficili” è stato all’epoca ed è tutt’ ora uno dei miei brani preferiti, una golden song di successo, da quando avevo 21 anni, decisamente di stampo hip-hop, l’album prodotto dall’inglese Ben Young non necessita di altre presentazioni, basti pensare al fatto che vennero influenzati da quelli che erano e sono tutt’ oggi i custodi delle sonorità dell’Hip-Hop italiano semplicemente senza paragoni. “Perso nel ritmo strano del rumore dei mie pensieri”: il video descrive una vita ordinaria che poi alla fine finisce sempre per creare caos interno. La cosa difficile è cantare sotto la doccia ? Forse ! Rappare sull’ Acid Jazz è un gioco divertente, c’è della teatralità nella voce di Alioscia, che stupisce, sorprende, vivacizza, lascia svegli e attenti, “mette in riga”.

“Pronti al peggio” è un brano squillante e colorato, sembra una protesta politica in penombra, ai tempi c’era chi era esplicito sui suoi pensieri e chi invece percepiva e cantava in modo che gli si girava al largo, realista … Dal min. 3:25 del brano ci si tuffa inaspettatamente in un mondo orchestrato da una che sembra fare da soundtrack a un film, vedo un vikingo che suona un trombone come richiamo o allarme. Si sentono i primi rumori informatici, tipo chip attivi in un processo di lavorazione.

Ascolto “Guarda in alto” rendendomi conto che il gioco sull’ acustica è assorbibile perchè delicato e velato, culla le orecchie. Quel “non svegliarmi adesso” è una sorta di comunicazione extraterrestre con qualche forma di vita sconosciuta … Questo è l’ effetto principale che suscita la loro musica: comunicano con gentilezza, senza aver paura del nuovo.

Prisca Emberti Gialloreti

RECORD REVIEW / Odio Pieno dei Colle Der Fomento (1996)

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Veniamo dal basso come un gancio al mento…
(proto-recensione di “Odio Pieno”, disco d’esordio dei “Colle Der Fomento”, Mandibola Records)

No, non ho sbagliato frase. No, non ho neanche sbagliato album. So bene che il disco che sto per recensire precede “Ghetto Chic” (il singolo che contiene la frase in questione) di oltre un decennio, come so bene quanto i due lavori a livello “stilistico” non siano comparabili.
Quindi? Cosa accomuna questa frase, relativamente recente, (oltre agli autori stessi, ovviamente), al primo progetto dei Colle Der Fomento, pubblicato 11 anni prima?

Veniamo dal basso come un gancio al mento…

Quando sentii “Odio Pieno” per la prima volta, ricordo di averci collegato subito questa frase.

Ho 22 anni, ovviamente non ho vissuto il periodo d’oro in cui furono pubblicati questo ed altri lavori rimasti nella storia della Doppia italiana. Ammetto di aver conosciuto i Colle durante la mia adolescenza, proprio tramite “Ghetto Chic” ed “Anima e Ghiaccio”, lo stesso anno in cui fu pubblicato. Ne rimasi folgorato, cominciai a scavare a ritroso nella loro discografia fino ad arrivare appunto ad Odio Pieno, quando già ero completamente infottato dagli altri loro lavori.
Come dicevo, ricordo di aver pensato subito a quella citazione…
Dal basso. Come un gancio al mento.
Pensai sin da subito che non ci sarebbero state parole migliori per descrivere quell’album, qualsiasi altra definizione sarebbe stata forzata, oltre che superflua.
Ma andiamo per ordine, preciso: quella che sto per scrivere non sarà una vera e propria recensione. O meglio, sarà il ragazzino grezzo, “puro”, infottato e “incontaminato” che ero quando ascoltai questo lavoro, a recensirlo per me.
Detto ciò, si può iniziare.

Immaginate un diciassettenne armato di cuffiette, in un bus notturno per Bologna, rannicchiato su un sedile troppo stretto, con il naso sul finestrino, immerso fra gli odori degli insaccati provenienti da quasi ogni zaino di ogni pugliese che si rispetti ed il russare generale degli aliti fini circostanti.
Lato oscuro.
…Play.
Ricordo che all’inzio confusi il respiro affannato dell’intro con il russare del mio vicino di viaggio, tanto da averlo rimesso dall’inizio 3 volte. Che cazzo…
Ogni dubbio si dissolse comunque presto col partire del basso.
“Dooooun, DoDooooun, DoDoooun, DoDooooun….”
Semplice, puro, grezzo, cattivo.
E via col drumming, e il sample.
Semplice, puro, grezzo, cattivo.
Quando mi chiedono, ancora ora, un parere su Ice One (all’epoca, appunto, appartenente al gruppo e produttore dell’intero lavoro), la mia risposta è concisa: è il lato oscuro.
Semplice, puro, grezzo, cattivo.
E mentre uno degli intro a mio parere più riusciti della storia andava e nei timpani richieggiava quel “Colle der fomentooo” in loop, pensai che quello che stavo per fare sarebbe stato un ascolto non così facile come mi aspettavo, ma allo stesso tempo SEMPLICE, PURO, GREZZO, CATTIVO.
Qualche secondo dopo, la conferma:
“…faccio rap, solo rap, tu ci ridi sopra
ci giochi ma col rap non ci si gioca,
sai che flippo hardcore…” Solo Hardcore.
Qualche tempo fa mi capitò di leggere qualcosa del Danno, mentre parlava di questo disco. Lessi che nella sua realizzazione si erano ispirati ai Cypress Hill e ai SangueMisto (nel 96-97 entrambi i gruppi cavalcano già la propria rispettiva onda).
Credo che non avessero già da allora nulla da invidiare rispetto ai loro “modelli di riferimento” e nella seconda traccia si può intuire il perché.
Il disco scorre lento, rinondante, cupo.
Pezzi come “Quello che ti do” o “Quando verrà il momento” lasciavano già intravedere quella maturità artistica a cui ero abituato nei precedenti lavori, ma capisco già subito che la prima fatica ufficiale dei Colle era esattamente la rappresentazione spiccicata di quello che erano a quei tempi. Ragazzi infottati, fomentati appunto, “ingenui” nella loro “freschezza”, ma non stupidi, e soprattutto a metà fra l’essere incazzati e menefreghisti. In poche parole, proprio come, col senno di poi, ricordo e capisco di essere stato all’epoca di questa storia, ripensandoci.
Articolato nella sua semplicità, pieno e puro nel suo essere grezzo e grezzo e sporco nella sua purezza, quasi confortante nella sua “cattiveria”.
E poi ancora, “PornoRockers” e “Funk Romano”, perchè siam cupi, ma sappiamo prenderci e prendervi bene.
E poi, mentre il tizio accanto stavolta sovrastava davvero la musica col suo russare gracchioso, ecco “Ciao Ciao”.
Un esperimento quasi. Il convivere sullo stesso beat di stili opposti. Azzeccato.
Il Danno e la Beffa (Masito all’epoca), insieme a Piotta (prima che scoprisse la mossa del giaguaro, ma dopo essersi staccato proprio dai Colle nella loro precedente formazione “Taverna Ottavo Colle”) e Kaos One (che già veniva da anni di esperienza in campo, rappando sia in inglese che in italiano.)
“Ciao Ciao” è un “manco vi cago” a tutto il resto, e lo si sente pure bene. “Wappissimo”, ricordo di aver pensato.
E ancora, ancora e ancora.
Rabbia, voglia di dimostrare, di “strappare e scuotere”, quel senso di appartenenza  alla propria realtà, alla propria terra, al proprio colle.
“Odio Pieno” rappresenta tutto ciò e molto altro.
Sono metriche lineari e crude, voci non del tutto mature ma flow già rimarcati, un grido d’esistenza al mondo di un gruppo di ragazzi semplici, ma che era destinato a diventare storia.
Sembra quasi che già lo sapessero. Sapevano che il conto sarebbe arrivato quando, non a caso, “sarebbe stato il momento” (semicit.)
Quel grido che ora viene fuori possente e sicuro, ma che all’epoca era “di stomaco”.
E già da allora, appunto, veniva orgogliosamente DAL BASSO, proprio come me in quel bus, ma proprio COME UN GANCIO AL MENTO puntava in alto, proprio come me all’epoca ( e perchè no, anche ora.)

GiroWeedz